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Geopolitica delle ferite

Geopolitica delle ferite

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Quando si contempla la scena geopolitica contemporanea, la nostra attenzione è naturalmente catturata dagli eventi visibili: fronti che si spostano, infrastrutture che crollano, governi che vacillano. Tuttavia sotto questa superficie di fatti misurabili si estende un orizzonte più profondo e decisivo: le ferite psichiche collettive che i conflitti e le crisi imprimono nelle esistenze. Queste ferite non figurano sulle carte, eppure rimodellano la capacità di una società di ricostruire, di fidarsi, di immaginare un avvenire; sono, in ultima analisi, una variabile geopolitica.

Il peso statistico del trauma globale

I dati disponibili restituiscono un quadro che non ammette sconti. Oltre un miliardo di persone convive con un disturbo mentale. Nelle aree colpite da conflitti armati, disastri o crisi umanitarie, le stime indicano che circa il “22%” degli adulti presenta disturbi mentali, con quasi il “10%” in forme moderate o gravi. Revisioni su PTSD e depressione in popolazioni civili esposte alla guerra riportano valori attorno al “23–25%” per entrambe le condizioni; in contesti di violenza ripetuta e spostamenti continui le percentuali possono salire fino al “30–40%”, e in situazioni estreme superare tali soglie.

I casi recenti offrono testimonianze drammatiche. Nella Striscia di Gaza, indagini condotte tra il 2024 e il 2025 su persone sfollate internamente hanno rilevato che il “99,5%” degli intervistati mostrava segni di depressione clinicamente significativa, il “99,7%” segnali di ansia e il “93,7%” stress acuto; la frequenza degli spostamenti, spesso quattro o più trasferimenti, risultava direttamente associata alla gravità del quadro psicologico. In Ucraina, studi condotti dopo l’invasione del 2022 indicano che oltre il “20%” dei bambini in età prescolare presentava sintomi clinicamente rilevanti di PTSD, mentre tra gli adolescenti la quota si attestava intorno al “18%”; quasi la metà degli adulti analizzati mostrava sintomi depressivi, uno su quattro segni di PTSD e circa un quarto ansia.

Rifugiati, sfollati, comunità sospese

Il fenomeno non è isolato. Una meta-analisi del 2022 su adolescenti rifugiati e richiedenti asilo ha evidenziato che quasi “un giovane su quattro” mostrava sintomi compatibili con PTSD, mentre depressione e ansia colpivano rispettivamente circa il “14%” e il “16%” dei casi. In una comunità di rifugiati in Uganda, l’”83%” di bambini e adolescenti intervistati soddisfaceva i criteri clinici per disturbo post-traumatico. Tra i rifugiati siriani in vari paesi, la prevalenza di depressione si aggira intorno al “40%”, mentre il PTSD oscilla tra il “30%” e il “40%”, spesso in comorbidità che aggrava e prolunga il decorso. Donne palestinesi rifugiate in Giordania, con familiari colpiti dagli eventi nella Striscia, presentano sintomi depressivi nel “73%” dei casi, ansia nel “60%” e insonnia nel “65%”.

Queste cifre non sono meri numeri: sono indici di una trasformazione sociale. Una popolazione in cui una quota rilevante, talvolta la maggioranza, porta i segni di un trauma profondo non è in grado di ricostruire con rapidità né di rigenerare fiducia nelle istituzioni. Il trauma erode la fiducia interpersonale e istituzionale, riduce la capacità di pensare a lungo termine, ostacola l’apprendimento, la concentrazione e la produttività. Dove la paura diventa norma, le reti sociali si sfaldano, la partecipazione civica si assottiglia e si aprono spazi per la marginalizzazione, per la criminalità e per forme di radicalizzazione che offrono identità semplici e narrazioni di vendetta. Il dolore collettivo diventa così carburante per l’instabilità: non una causa meccanica di violenza, ma un terreno fertile per cicli che si autoalimentano.

La memoria ferita e il futuro: il trauma ereditato

Vi è poi una dimensione temporale e morale che rende il fenomeno ancora più inquietante: la trasmissione intergenerazionale del trauma. Bambini che crescono osservando genitori segnati da incubi, ipervigilanza e disperazione interiorizzano modelli educativi fondati sulla paura; la cultura della sopravvivenza soppianta quella della crescita. UNICEF stima che circa “473 milioni” di bambini vivano oggi in zone di conflitto, quasi il doppio rispetto agli anni Novanta; questo bagaglio psicologico collettivo modellerà le società future, le loro scelte politiche, economiche e culturali, per decenni.

Di fronte a questa realtà, la salute mentale non può essere considerata un accessorio delle emergenze: deve essere riconosciuta come infrastruttura. Le linee guida internazionali per il supporto psicosociale in emergenze (MHPSS) hanno formalizzato questa idea, ma la distanza tra bisogni e risorse rimane abissale. In molti paesi fragili la spesa per la salute mentale non supera il “2%” del budget sanitario; gli operatori qualificati sono pochissimi e i servizi spesso inesistenti o inaccessibili. Così il trauma si cronicizza, trasformandosi in una «disabilità invisibile» che mina ogni tentativo di ricostruzione duratura.

Trauma, vulnerabilità e rischio sistemico

Le implicazioni geopolitiche sono evidenti: una comunità traumatizzata è una comunità vulnerabile alla manipolazione politica, alla fuga disperata, al collasso sociale. Le riserve psicologiche che consentono di sopportare, adattarsi e innovare vengono erose; la resilienza collettiva si assottiglia. Per questo curare non è soltanto un atto umanitario: è una strategia di sicurezza. Investire nella guarigione psicologica significa investire nella stabilità a lungo termine, nella capacità di una società di rigenerarsi e di partecipare pienamente alla vita civile.

Occorre dunque un cambio di paradigma: pensare la geopolitica non solo come scienza della forza e degli equilibri, ma anche come scienza della cura. Non si tratta di sentimentalismo, ma di politica strategica.

La pace non può essere semplicemente l’assenza di spari, ma presenza di comunità capaci di fidarsi, di guardare avanti, di coltivare progetti comuni. Leggere la geopolitica delle ferite significa riconoscere che la cura è parte integrante della sicurezza globale: curare è preservare il futuro delle società e, in ultima analisi, la stabilità del mondo.

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